La riforma Cartabia del procedimento civile ha introdotto importanti novità sulla materia del  gratuito patrocinio, ossia a spese dello Stato.

https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_3_7_2.page.

Come ho già esposto in altri miei contributi (cfr. L’assistenza legale gratuita per i non abbienti – StudiLegali.com), il diritto di agire e resistere in giudizio è garantito dalla Carta Costituzionale all’art. 24 ai non abbienti, cioè a coloro che si trovino in determinate condizioni reddituali e che possono richiedere l’ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato ai sensi degli artt. 74-145 del D.P.R. 115/2002. Attualmente, il limite reddituale al di sotto del quale si è ammessi al gratuito patrocinio è fissato in € 12.838,07 (così elevato dal DM del 10 maggio 2023 pubblicato in G.U. del 6.6.2023). Come detto, si tiene conto anche dei redditi conseguiti dai familiari conviventi (cioè quelli che risultano dallo stato di famiglia rilasciato dal Comune di residenza) e della titolarità di beni immobili e mobili registrati. Non si fa riferimento ai limiti reddituali in alcune ipotesi particolari ma, trattandosi di casi in cui non si svolge alcun procedimento di mediazione o di negoziazione assistita, non se ne terrà conto e non se ne farà menzione.

La legge, prima della riforma, consentiva l’accesso al beneficio soltanto per la tutela dei diritti dinanzi alle sedi giudiziarie in senso stretto, lasciando scoperto il settore del c.d. A.D.R. ossia del sistema alternativo extra-giudiziale di risoluzione delle controversie, mediazione e negoziazione assistita in particolare.

Le novità della riforma Cartabia sul gratuito patrocinio

Ebbene, la riforma Cartabia ha finalmente posto rimedio a questa situazione ed ha previsto espressamente che la parte che sia in possesso dei requisiti richiesti dalla legge può beneficiare del c.d. gratuito patrocinio anche per promuovere o aderire ai procedimenti di mediazione e/o negoziazione assistita.

Lo scopo dell’estensione, in linea con l’impianto generale della riforma, è quello di evitare l’avvio di contenziosi giudiziali e quindi l’appesantimento del carico di lavoro dei Magistrati permettendo il ricorso a questi strumenti deflattivi del contenzioso.

Le nuove disposizioni sono entrate in vigore dal 30 giugno 2023.

È importante precisare che l’ammissione è soltanto provvisoria perché se il procedimento si conclude negativamente al difensore non saranno liquidati gli onorari.

Una recente pronuncia del Tribunale di Savona del 12.12.2023 ha però riconosciuto al difensore la liquidazione dei compensi per questa fase in quanto, come argomenta il Giudicante, trattandosi di un procedimento che deve essere obbligatoriamente promosso (in tutti i casi in cui ciò sia prescritto dalla legge, sia cioè una condizione di procedibilità dell’azione giudiziale) il mancato raggiungimento dell’accordo non può andare a sfavore né della parte ammessa né del suo difensore.

La decisione del Tribunale di Savona è senz’altro apprezzabile anche se prende in esame unicamente i casi di negoziazione e mediazione obbligatori, lasciando fuori i casi in cui i procedimenti A.d.R. siano stati avviati su base volontaria.

Sarebbe quindi opportuno un nuovo intervento del legislatore che emendi la normativa attualmente vigente da queste incongruenze.

Se, infatti, il ricorso ai sistemi alternativi di risoluzione delle controversie è stato ampliato e, in un certo senso, favorito dal legislatore onde evitare che si intasino le aule di giustizia e si appesantisca il lavoro dei magistrati, si dovrebbe – per logica conseguenza oltre che per giustizia formale e sostanziale – riconoscere il diritto alla liquidazione dei compensi al difensore in ogni caso.

La caducazione del provvedimento di ammissione con tutti i suoi effetti conseguenti appare troppo severa soprattutto se all’accordo non si sia giunti per il comportamento ostruzionistico della controparte, non interessata ad una celere definizione del contenzioso.

Avvocato Simona Giorgi: CV ed Esperienze Professionali

https://avvocatosimonagiorgi.it/gratuito-patrocinio/

 

Il nuovo procedimento di separazione e divorzio

Dal prossimo 28 febbraio entrerà in vigore il nuovo procedimento di separazione e divorzio,in attuazione della c.d. riforma Cartabia del processo civile.

Rispetto al sistema di prossima abrogazione, le novità riguardano innanzitutto lo snellimento della procedura, che non sarà più bifasica né attribuita al Presidente del Tribunale, e l’attenzione precipuamente diretta alla tutela degli interessi dei figli minori.

Il Tribunale competente è individuato in quello del luogo di residenza dei figli minori e, qualora questi manchino, in quello del luogo di residenza del convenuto.

Tanto il ricorso introduttivo quanto la comparsa di risposta, quando siano formulate domande di mantenimento per il coniuge e/o per i figli, debbono essere obbligatoriamente corredati sin dal momento del loro deposito delle dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni, della documentazione attestante la titolarità di beni immobili, mobili registrati e quote sociali e dagli estratti conto bancari e/o postali degli ultimi tre anni.

Lo scopo è quello di palesare sin dall’inizio le proprie capacità economiche al fine di consentire al Giudice di determinare la misura dell’assegno nella misura più congrua.

Una interessante novità ha introdotto la possibilità di domandare, già al momento dell’introduzione del giudizio di separazione, anche lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio. È importante però tenere presente che anche se le domande sono proposte contestualmente esse conservano la propria autonomia, sicchè sarà pronunciata prima la sentenza di separazione e, decorso il termine per il passaggio in giudicato di quest’ultima, sarà procedibile quella di divorzio.

I provvedimenti temporanei e urgenti saranno pronunciati con ordinanza del giudice che potrà disporre anche quali informazioni un genitore sia tenuto a comunicare all’altro e formulare una proposta di piano genitoriale.

La riforma ha inteso, aggiungendo uno specifico articolo del codice di procedura, sanzionare specificamente il genitore inadempiente disponendo che il Giudice della crisi famigliare, anche d’ufficio, può revocare o modificare i provvedimenti inerenti la prole ed emettere provvedimenti sanzionatori, anche cumulati tra loro, tra i quali spicca la condanna al risarcimento dei danni  a favore dell’altro genitore (su domanda di parte) e/o del minore (anche d’ufficio).

I nuovi procedimenti di separazione consensuale e divorzio congiunto

La riforma ha precisato che il ricorso introduttivo deve essere sottoscritto anche dalle parti (oltre che naturalmente dai difensori) e, al pari del caso della separazione o del divorzio contenzioso, all’atto deve essere allegata la documentazione reddituale e patrimoniale delle parti https://tribunale-latina.giustizia.it/it/dettaglio_comefareper.page?contentId=PRC7292&modelId=32.

La riforma ha poi accolto interamente l’orientamento giurisprudenziale più recente ed ha espressamente statuito che le parti possono regolare, in tutto o in parte, i loro rapporti patrimoniali e quindi provvedere a trasferimenti immobiliari, divisioni, scioglimento di comunioni etc.

La separazione consensuale sarà pronunciata non più con decreto di omologazione bensì con sentenza.

Il procedimento per la modifica delle condizioni di separazione o divorzio

Qualora sia una delle parti a chiedere la modifica dei provvedimenti il procedimento sarà contenzioso e seguirà lo schema previsto per le pronunce rese in sede di separazione o divorzio.

Nel caso, invece, di domanda congiunta, la novità più rilevante attiene alla trattazione della causa che avverrà in modalità scritta. La comparizione delle parti dinanzi al Giudice, infatti, sarà disposta soltanto se siano le parti a richiederla.

In entrambi i casi, il procedimento si conclude con sentenza.

https://avvocatosimonagiorgi.it/diritto-di-famiglia/

l’accertamento in rettifica dell’imposta di registro è un tema molto attuale e sentito dai contribuenti. si analizza qui un caso concreto, trattato dallo studio https://avvocatosimonagiorgi.it/diritto-tributario/.

La vicenda

La società X ha acquistato nel primo semestre del 2019 un immobile uso ufficio nel Comune di Latina pagando interamente il prezzo pattuito con il venditore e versando le relative imposte di registro ed ipo-catastali.

Dopo circa due anni, la società acquirente si vedeva notificare da parte dell’Agenzia delle Entrate competente un avviso di accertamento in rettifica nel quale, assumendo che il valore venale, ossia il valore meramente commerciale dell’immobile, fosse superiore a quello effettivamente pagato chiedeva il pagamento della maggiore imposta e delle sanzioni collegate.

La società acquirente, dopo aver rifiutato la proposta conciliativa formulata dall’Ufficio accertatore, proponeva, con l’assistenza del sottoscritto Avvocato, ricorso avanti alla Commissione Tributaria competente per territorio.

La causa veniva trattenuta in decisione ed in data 9 giugno 2022 veniva notificata alle parti la sentenza di accoglimento del ricorso con conseguente annullamento dell’atto impositivo.

Le ragioni del ricorso

Un aspetto importante da chiarire per la comprensione della vicenda è che l’Ufficio non ha contestato la veridicità del prezzo dichiarato ma ha semplicemente assunto che il bene in questione fosse stato venduto ad un prezzo inferiore a quello di mercato nell’area di riferimento, procedendo così a rettifica dell’imposta di registro.

La possibilità per l’Agenzia delle Entrate di emettere simili atti non si fonda sull’arbitrio ma sulla legge, essendo espressamente previsto dalla Legge, ed in particolare dall’art. 51 del DPR 131/1986, in base al quale per determinare il valore di mercato degli immobili e controllare la congruità delle imposte versate possono essere utilizzati, tra gli altri mezzi, anche gli atti per operazioni analoghe compiute nel triennio antecedente.

Si tratta del cosiddetto metodo comparativo che, però, come detto, è soltanto uno tra i diversi metodi utilizzabili.

La società ricorrente, nel contestare il criterio di stima adottato dall’Ufficio, rilevava innanzitutto come gli atti allegati dall’Ufficio a sostegno della propria tesi non fossero esaustivi giacchè nel triennio antecedente la compravendita de qua vi erano state altre compravendite aventi ad oggetto immobili analoghi e situati nello stesso stabile per prezzi assolutamente conferenti rispetto a quello contestato e che non erano stati oggetto di rettifica da parte dell’Ufficio.

Non solo. La ricorrente allegava a sostegno della propria tesi le quotazioni immobiliari O.M.I. redatte, proprio dall’Agenzia delle Entrate, le quali rafforzavano la dimostrazione che il prezzo pagato fosse assolutamente congruente con il valore intrinsecamente commerciale del bene, facendo notare come le quotazione avessero dimostrato un decremento nel triennio anche a causa della crisi del mercato immobiliare che, riteniamo, sia un fatto pressoché notorio.

Le motivazioni della sentenza

La sentenza della Commissione Tributaria competente ha condiviso le ragioni del ricorrente, soprattutto in relazione alla corrispondenza tra il prezzo pagato e il valore venale reale.

il compenso del CTU: a chi compete?

Segnalo questa recente sentenza del Giudice di Pace di Latina che ha ribadito il principio della responsabilità solidale di tutte le parti in causa a pagare il compenso del CTU nonchè la prescrizione decennale del relativo diritto al pagamento, trattandosi di spesa di giustizia e non di onorario professionale.

La causa è stata trattata dal mio studio.

Il caso: un ingegnere aveva svolto l’ufficio di CTU in una causa civile e non era stato pagato da nessuna delle parti, alcune delle quali nel frattempo decedute.

Si rivolgeva quindi al sottoscritto avvocato che si premurava di chiedere le copie esecutive del decreto di liquidazione e della sentenza di definizione della causa.

Accertato che delle parti in causa una soltanto fosse ancora vivente la scrivente avvocato avviava gli atti necessari al recupero del credito

Il debitore proponeva opposizione sostenendo di non essere tenuto a pagare il CTU anche perchè, secondo la sua tesi difensiva, il diritto al pagamento era ormai prescritto per decorso del termine breve triennale.

La difesa del CTU insisteva nel ribadire che l’attività del CTU, essendo il consulente un ausiliario del Giudice e non un assistente delle parti, era caratterizzata dalla imparzialità e dalla ricerca della verità e che il diritto al pagamento del suo compenso non si prescriveva in tre anni bensì in dieci (termine ordinario), trattandosi di spesa di giustizia e non di compenso professionale.

Il Giudice di Pace, accogliendo le tesi difensive del CTU creditore, rigettava l’opposizione e dichiarava che il compenso del CTU doveva essere pagato.

https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaArticolo?art.versione=1&art.idGruppo=28&art.flagTipoArticolo=1&art.codiceRedazionale=040U1443&art.idArticolo=194&art.idSottoArticolo=1&art.idSottoArticolo1=10&art.dataPubblicazioneGazzetta=1940-10-28&art.progressivo=0

sentenza del giudice di pace di latina

Quando ricorrere all’Arbitro Bancario Finanziario, un metodo alternativo di risoluzione delle controversie con le banche e gli altri intermediari finanziari.

Nel rapporto banca/cliente possono insorgere controversie collegate, ad esempio, all’addebito di interessi e commissioni troppo onerosi oppure alla consegna di documenti nonché, sempre più di frequente, legate all’utilizzo di strumenti informativi (home banking, utilizzo di app etc) che espongono sovente il cliente al rischio di subire vere e proprie truffe.

Un modo per risolvere queste controversie è ricorrere all’Arbitro Bancario Finanziario (ABF), al di fuori quindi delle aule di Tribunale.

 

COSA È L’ARBITRO BANCARIO FINANZIARIO

L’ABF è un collegio composto da 5 membri che, in attuazione dell’art. 128 bis T.U.B., dirime le controversie tra le banche e gli intermediari finanziari e i loro clienti.

Si articola in sedi territoriali localizzate a Bari, Bologna, Milano,  Napoli,  Palermo,  Roma e Torino.

Si tratta di un organo di ADR (Alternative Despute Resolution), non giurisdizionale.

 

DI COSA SI OCCUPA L’ABF NELLE CONTROVERSIE BANCARIE

L’ABF è competente per materia per tutte quelle controversie che abbiano ad oggetto operazioni e servizi finanziari e bancari.

Sono quindi devolute a questo organo le questioni inerenti a rapporti di conto corrente, carte bancomat e di credito, mutui e prestiti personali, segnalazioni alla Centrale dei Rischi etc.

Non si occupa di servizi di borsa e investimento quali i servizi di acquisto e collocazione di fondi di investimento,  obbligazioni etc.

I rapporti sottoposti all’ABF devono inoltre essere di valore pari o inferiore ad euro 200.000 e devono essere venuti ad esistenza dopo il 1° gennaio 2009.

Il limite di valore non rileva quando si chieda l’adempimento di obblighi o l’esercizio di diritti e facoltà.

 

RICORRERE ALL’ARBITRO BANCARIO FINANZIARIO: COME FARE

Per presentare il ricorso all’ABF è necessario avere prima presentato un formale reclamo direttamente alla banca interessata che è tenuta a rispondere entro 30 giorni dal ricevimento dello stesso. È altresì necessario che non penda già un giudizio avente ad oggetto la medesima questione,  nemmeno se devoluto ad arbitri o mediatori. Queste condizioni devono essere rispettate a pena di irricevibilità del ricorso.

All’atto della presentazione è necessario versare la somma di € 20,00 per le spese di avvio.

Il  ricorso si deposita in via telematica,  accompagnato dagli eventuali documenti a sostegno della richiesta.

Ricevuto il ricorso, il Collegio invita la controparte a far  prevenire le sue controdeduzioni e dal momento in cui queste ultime sono trasmesse decorre il termine di 60 giorni per la pronuncia della decisione.

Si tratta, come si vede, di un procedimento scritto nel quale non è prevista la comparizione personale delle parti né alcuna discussione orale.

 

LA DECISIONE DELL’ABF, NATURA ED EFFETTI.

La decisione è comunicata alle parti. Essa consta di una motivazione e della decisione vera e propria che può essere di accoglimento, totale o parziale, o di rigetto.

Il  provvedimento però non è vincolante e non costituisce titolo esecutivo.

L’ottemperanza al suo contenuto è rimessa alle parti ma, si noti, l’ABF monitora i comportamenti delle banche e il mancato rispetto delle decisioni è pubblicato sul sito istituzionale dell’organo.

L’esito del ricorso, appunto perché non ha effetti vincolanti, non pregiudica il diritto delle parti a riproporre l’azione in via ordinaria, ossia davanti al Tribunale competente.

 

Nonostante la natura non definitiva e non esecutiva della decisione dell’Arbitro Bancario Finanziario, il ricorso a questo organo rappresenta un’ottima alternativa alla causa ordinaria, celere e dai costi contenuti.

Pur non essendo obbligatorio il patrocinio del legale in questa fase, è consigliabile avvalersene considerando che, come detto, il procedimento si svolge per iscritto ed è a contradditorio ridotto.

È quindi importante esporre le proprie ragioni in modo accurato, in fatto e in diritto. L’ABF, infatti, non è un organo giurisdizionale ma le sue decisioni sono fondate sulle leggi e i regolamenti vigenti.

 

Avv. Simona Giorgi

Successioni e divisione ereditaria costuiscono da sempre una grande causa di litigiosità fra gli eredi.

Definizione

Per “successioni” o “successione” si intende la sorte dei rapporti giuridici, soprattutto patrimoniali, successive al tempo in cui il loro titolare avrà cessato di vivere ( https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:codice.civile:1942-03-16;262 ).

La legge regola minuziosamente la vicenda successoria nel libro II del Codice Civile, intitolato, appunto, “delle successioni”.

I vari tipi di successione

Nel nostro ordinamento, la successione può essere testamentaria o legittima.

La prima si apre quando il de cuius (ossia il defunto) abbia disposto delle proprie sostanze in un atto scritto. La libertà del testatore non è assoluta perché il coniuge e i figli (e se manchino figli, il coniuge e gli ascendenti) dovranno ricevere una quota del patrimonio in ogni caso, anche contro la volontà dello stesso testatore (sono i cosiddetti eredi legittimari).

La successione legittima, invece, invece si apre quando manchi in tutto o in parte un testamento. In questo caso, la legge individua un’ampia serie di soggetti che potranno assumere la qualità di erede (il coniuge e i parenti fino al sesto grado).

La rinuncia all’eredità

L’erede può sempre rinunciare all’eredità entro termini ben precisi che possono essere più o meno lunghi a seconda che il chiamato all’eredità sia o meno nel possesso dei beni ereditari (da quaranta giorni a dieci anni).

L’accettazione con beneficio di inventario

Secondo la legge, l’erede subentra nei rapporti giuridici del defunto, sia attivi che passivi, e risponde dei debiti contratti dal de cuius anche oltre il valore della sua quota. Per evitare questo effetto di “responsabilità illimitata”, l’erede può accettare con beneficio di inventario. In tal caso, i debiti ereditari saranno soddisfatti entro i limiti della quota ereditaria stessa, rispettando una serie di cautele ed una procedura complessa dettagliatamente prevista dal codice civile.

La tutela dell’erede che sia stato leso nella sua quota

L’erede legittimario che abbia ricevuto meno di quanto gli fosse spettato per legge o che, addirittura, non abbia ricevuto nulla, può esercitare l’azione di riduzione al fine di vedersi reintegrato.

È molto importante sapere che per calcolare la quota da reintegrare deve tenersi conto non solo di quanto lasciato al momento della morte ma anche di quanto donato in vita.

La legge, infatti, considera ogni donazione disposta in vita come una sorta di anticipazione dell’eredità che non può mai andare a ledere i diritti dei legittimari.

La divisione ereditaria

Se gli eredi sono più di uno, tra loro esiste una comunione ereditaria che può essere sciolta in modo volontario (per contratto) o giudiziale.

La mediazione obbligatoria

Le controversie in materia di successioni e divisioni ereditarie debbono essere precedute obbligatoriamente dall’esperimento della mediazione avanti un organismo accreditato.

In caso di esito positivo, il verbale di mediazione costituisce titolo esecutivo e permette alle parti di scontare l’imposta di registro fino alla concorrenza di € 50.000,00.

La denuncia di successione

Deve essere eseguita entro un anno dalla morte del cuius ed ha effetti strettamente fiscali e tributari.

 

Naturalmente, quanto detto finora non è che una sintesi estremamente stringata della vicenda.

Successioni e divisione ereditaria sono materie vastissime e complesse.

La consulenza dell’avvocato è necessaria non solo per capire se esistano e quali siano eventuali diritti da esercitare ma anche per adottare, anche prima dell’apertura di una successione, le cautele necessarie per evitare lesioni della propria quota.

Avv. Simona Giorgi

https://avvocatosimonagiorgi.it/

separazione con addebito: cosa significa

Secondo l’art. 151 c.c. il giudice, se ne ricorrono le circostanze e se almeno una delle parti ne fa richiesta, pronunciando la separazione, dichiara a quale dei coniugi sia addebitabile, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri del matrimonio. Si tratta, in poche parole, di quella che un tempo veniva chiamata “separazione per colpa” ( https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:codice.civile:1942-03-16;262 )

Dalla disposizione succitata si evince, intanto, che la dichiarazione di addebito imputa il fallimento del matrimonio a quello dei coniugi che abbia violato i doveri che ne discendono e che sono elencati dall’art. 143 c.c., ossia il dovere di fedeltà, di assistenza morale e materiale, di coabitazione, di collaborazione anche economica in proporzione alle rispettive sostanze e redditi, nonché – non per ultimi – i doveri riguardo ai figli (art. 147 c.c.).

separazione con addebito: casisitica

È importante però sottolineare che le violazione contestate ed eventualmente accertate debbono essere causa e non effetto della rottura.

Così, sull’infedeltà coniugale, la giurisprudenza è costante nel distinguere tra quella causa della crisi matrimoniale e quella conseguenza di quella stessa crisi. Soltanto la prima può costituire motivo di addebito, non certo la seconda. Di contro, è stato anche precisato che anche la mera relazione platonica e non consumata può dare luogo a pronuncia di addebito della separazione se condotta ed esibita con modalità tali da ledere la dignità, l’onore e il decoro dell’altro coniuge.

Quanto alla violazione dell’obbligo di coabitazione (il c.d. abbandono del “tetto coniugale”), se questa sia avvenuta per sottrarsi alla intollerabilità della convivenza non può costituire motivo di addebito. In casi diversi, l’abbandono dell’abitazione coniugale non solo può diventare motivo di addebito ma può costituire anche reato nei casi previsti dall’art. 570 del codice penale.

Analogamente per la violazione del dovere di assistenza morale e materiale. Il coniuge che non provveda a contribuire al mantenimento dell’altro e/o dei figli non solo può vedersi addebitata la separazione ma può anche commettere il delitto di violazione degli obblighi di assistenza famigliare.

separazione con addebito: conseguenze

Spetta al coniuge che lo chieda, dare la prova dei fatti costitutivi dell’addebito, prova che può essere data con ogni mezzo, sia diretto che documentale.

Il coniuge cui sia addebitata la separazione perde il diritto al mantenimento da parte dell’altro ma conserva quello agli alimenti, ossia il diritto di chi versa in stato di bisogno e non ha i mezzi per provvedere autonomamente a vedersi erogato l’indispensabile per vivere.

Inoltre, il coniuge separato con addebito è escluso dall’eredità dell’altro.

Le conseguenze, dunque, sono di carattere strettamente patrimoniale.

https://avvocatosimonagiorgi.it/diritto-di-famiglia/

Diffamazione e social network sono un binomio di cui in questi anni si sente parlare. Fatti di cronoaca anche gravi ci pongono il problema della diffamazione nei social network.

La diffamazione è un delitto contro l’onore previsto e punito dall’art. 595 c.p.

https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:regio.decreto:1930-10-19;1398

Diffamare qualcuno consiste nel riferire giudizi svalorizzanti su qualcuno, non importa a quante altre persone. Questo reato è commesso tutte le volte che si chiacchiera a sproposito su qualcuno, magari anche soltanto con lo scopo di fare del pettegolezzo più o meno salace, riferendo di fatti e comportamenti che la riguardino direttamente, reali o inventati di sana pianta.

Come è stato ben chiarito dalla giurisprudenza, non è importante che l’autore si prefigga l’obbiettivo di diffamare. Ciò che rileva è la consapevolezza di esprimere un giudizio lesivo dell’altrui reputazione ad altri.

Frequentemente, succede che queste condotte si realizzino sui social network. Qualcuno pubblica un post in cui parla male di qualcun altro, usando toni inappropriati verso un soggetto perfettamente riconoscibile (facendone spesso nome e cognome oppure pubblicandone la fotografia).

Simili comportamenti dal punto di vista penale non sono affatto neutri ma costituiscono il reato di diffamazione nella sua forma aggravata così come delineata dall’art. 595 (“In tema di diffamazione di cui all’art. 595 c.p., consistente nell’addebito offensivo, in assenza dell’offeso, comunicato a più persone, nella sua fattispecie aggravata di cui al comma 3, attesa la diffusione del post a mezzo facebook, quanto all’elemento soggettivo, il dolo del reato è generico e consiste nella consapevolezza di pronunciare o di scrivere una frase lesiva dell’altrui reputazione, ma anche nella volontà che la frase denigratoria venga a conoscenza di più persone (pertanto è necessario che l’autore della diffamazione comunichi con almeno due persone ovvero con una sola persona, ma con tali modalità, che detta notizia sicuramente venga a conoscenza di altri ed egli si rappresenti e voglia tale evento). In altri termini, non è necessario la sussistenza dell’animus diffamandi, ma è sufficiente da parte del soggetto attivo la rappresentazione e la volontà della comunicazione con più persone dell’addebito offensivo” Trib. Pescara. 07/01/2019, n. 4)

Per chi compie atti di diffamazione con un mezzo di pubblicità la pena è infatti aumentata e la diffamazione nei social network, stante la potenzialità di ogni post di raggiungere una platea potenzialmente indefinita di lettori, è aggravata dall’uso del mezzo pubblico.

Le conseguenze per il suo autore possono essere molto serie.

Vi è innanzitutto il profilo penale della vicenda ma anche quello civile. La vittima della diffamazione potrà costituirsi parte civile nel processo penale oppure intentare un’autonoma azione civile per ottenere il risarcimento del danno arrecato alla propria reputazione, la cui quantificazione dipende da numerosi fattori: “in materia di danno causato da diffamazione, idonei parametri di riferimento possono rinvenirsi, tra gli altri, dalla diffusione dello scritto, dalla rilevanza dell’offesa e dalla posizione sociale della vittima. E così, valorizzando siffatte coordinate ermeneutiche, è possibile far assurgere a criteri presuntivi di verificazione del danno non patrimoniale, la diffusione dello scritto attraverso il social network facebook, idoneo a diffondere il messaggio pubblicato lesivo, anche attraverso il sistema delle cd. condivisioni, ben oltre la cerchia di cd. amici della titolare del profilo” (Tribunale Potenza, 19/10/2018, n. 864).

Parlando di diritto penale sostanziale, voglio segnalare il mio contributo pubblicato sulla rivista SALVIS JIURIBUS. Si è presa in esame la materia dell’elemento psicologico del soggetto attivo dell’autore del fatto, soprattutto sul piano dell’esclusione della responsabilità http://www.salvisjuribus.it/le-cause-di-giustificazione-reali-e-putative/

Più in particolare, sono state trattate le cosiddette cause di giustificazione o esimenti (legittima difesa, stato di necessità, esercizio di un diritto, consenso dell’avente diritto, adempimento di un dovere, uso legittimo delle armi) e, in particolare, le conseguenze derivanti dall’avere supposto esistente una o più di queste circostanze.

Qualora, infatti, la situazione percepita non sia effettivamente esistente può accadere che l’autore del fatto debba comunque risponderne penalmente.

Gli articoli del codice penale di riferimento sono: art. 47 (errore di fatto), art. 55 comma 1 (eccesso colposo) e art. 59 (circostanze non conosciute o erroneamente supposte), da coordinare con l’art. 43 che definisce i titoli soggettivi del reato, distinguendo tra dolosi, colposi e preterintenzionali.

L’art. 43 C.P. recita testualmente: “Il delitto: è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione;
è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente; è colposo, o contro l’intenzione quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico”.

Il tema è stato oggetto della mia tesi di laurea in diritto penale presso l’Università di Roma La Sapienza.

 

 

Il contenzioso tributario può essere evitato avvalendosi degli strumenti che legge vigente ha predisposto e che ogni contribuente che abbia ricevuto un accertamento fiscale può attuare.

Il loro scopo è quello di trovare un equilibrio tra le richieste dell’Erario e i diritti del contribuente, evitando il contenzioso tributario o risolvendolo in corso di causa.

Quelli che si vanno a descrivere sono i rimedi normali di portata generale per la definizione delle liti in atto o potenziali con il Fisco.

I provvedimenti, invece, conosciuti come “rottamazione delle cartelle esattoriali” o “pace fiscale”, non hanno portata generale. Si tratta, infatti, di strumenti deflattivi diretti ad alcune specifiche categorie di soggetti e per alcuni atti tassativamente indicati che possono (o potevano) essere attivati soltanto entro scadenze determinate.

I mezzi normali di definizione sono autotutela, accertamento con adesione, acquiescenza, reclamo-mediazione, conciliazione giudiziale.

Autotutela

Il primo rimedio per evitare il contenzioso tributario è l’autotutela.

Si tratta del potere di ogni Pubblica Amministrazione (e quindi anche dell’Amministrazione finanziaria) di annullare d’ufficio gli atti ingiusti.

Questo potere può essere sollecitato anche dalla parte destinataria dell’atto che può presentare un’istanza all’Ufficio competente nella quale indica i motivi per cui l’atto deve essere annullato. Questi motivi possono essere, ad esempio, l’errore di persona (si pensi ad un caso di omonimia), l’errore di calcolo, la mancata considerazione di pagamenti già eseguiti, la mancata applicazione di deduzioni, detrazioni, regimi agevolati cui si avrebbe avuto diritto etc.

L’annullamento dell’atto comporta la caducazione anche degli atti ad esso conseguenti e l’obbligo di restituzione di quanto sia stato pagato in forza dell’atto annullato.

https://www.normattiva.it/atto/caricaDettaglioAtto?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1990-08-18&atto.codiceRedazionale=090G0294&atto.articolo.numero=0&atto.articolo.sottoArticolo=1&atto.articolo.sottoArticolo1=0&qId=acab7159-9c8f-4026-a243-8b1e01fbe2a2&tabID=0.9412107345407283&title=lbl.dettaglioAtto

Accertamento con adesione

Si tratta in sostanza di una sorta di accordo tra contribuente e l’ufficio e può riguardare sia le imposte dirette che quelle indirette.

L’iniziativa spetta al contribuente e all’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate nella cui circoscrizione territoriale il contribuente ha il domicilio fiscale e può essere attivato sia dopo il ricevimento di un avviso di accertamento sia dopo che la Guardia di Finanza ha eseguito un accesso o una ispezione o una verifica presso il contribuente.

L’accordo tra le parti è riprodotto nel c.d. un atto di adesione sottoscritto da entrambe le parti. La procedura si perfeziona però soltanto con il pagamento delle somme concordate.

Il mancato raggiungimento dell’accordo non impedisce di ricorrere al Giudice Tributario.

I vantaggi di questo procedimento consistono in una riduzione delle sanzioni amministrative ma anche nella riduzione della pena nel caso in cui la condotta abbia anche risvolti penali in virtù del D. Lgs. 74/2000.

Acquiescenza

Si può evitare il contenzioso tributario anche prestando acquiscenza al provvedimento.

Si tratta, in buona sostanza, di una riduzione delle sanzioni amministrative a seguito della rinuncia ad impugnare l’avviso di accertamento e a presentare l’istanza di accertamento con adesione.

Reclamo / mediazione

Si tratta di una procedura attivabile per tutte le controversie tributarie di valore fino ad € 50.000 per la quale è necessaria l’assistenza e il patrocinio dell’avvocato.

La sua attivazione sospende i termini per la proposizione del ricorso davanti al Giudice Tributario.

Il procedimento deve concludersi in 90 giorni ed in caso di esito positivo le parti giungono ad un accordo che dovrà essere eseguito nei 20 giorni successivi. Si potrà così evitare il contenzioso tributario valendosi del contraddittorio con l’ufficio.

In caso negativo invece si apre, nei 30 giorni successivi, la fase contenziosa vera e propria davanti alla Commissione Tributaria competente.

Conciliazione giudiziale

Si tratta della definizione transattiva della lite già pendente con l’Amministrazione Finanziaria sia in primo che in secondo grado.

In questi casi non vi è pronuncia di alcuna sentenza ma il verbale di conciliazione costituisce titolo esecutivo e non è impugnabile.

In realtà non si tratta di un modo di evitare il contenzioso tributario ma di definirlo in corso di causa senza arrivare a sentenza.

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